“Un film dentro al carcere” come ha voluto precisare il regista, Davide Ferrario.
Il carcere infatti è una delle tante immagini che parlano di privazione della libertà, di coercizione, di negazione. Quale luogo migliore, luogo che Ferrario ben conosce per gli anni di volontariato trascorsi a San Vittore, per inscenare il dogmatismo religioso?
Irena (Kasia Smutniack, dalla presenza scenica ineccepibile) è una giovane regista che porta il teatro e la recitazione a un gruppo speciale di carcerati che interpretano se stessi con estrema professionalità e presenza scenica. Dopo un’iniziale incomprensione, nasce un gruppo di lavoro forte e coeso accomunato da un’ unica nostalgia, il sapore della libertà. E danzando e cantando seguono le tracce, a loro incomprensibili, del percorso artistico di Irena.
Ma poi arriva il cappellano e si deve mettere in scena la Passione di Cristo. E Irena, poco avvezza alle temtiche religiose, accetta la sfida e si inerpica lungo un cammino tortuoso che termina davanti a un muro troppo alto anche per lei: nessuno vuole interpretare la parte di Giuda l’infame! E Irena si immerge nella lettura critica dei Vangeli e trova la soluzione, raffigurando l’umanità di Cristo al di là del dogmatismo religioso: la redenzione deve necessariamente passare attraverso la sofferenza?
Il sacrificio ha diverse facce, di cui la sofferenza è solo una delle tante. Ed ecco che la riconciliazione con Dio prende le sembianze di una lirica gioiosa che rende sacro il canto della libertà.
La semplicità strabordante del linguaggio restituisce tutta l’intensità della storia, facendone uno dei punti di forza insieme alle immagini genuine che danzano sulla musica e dentro la musica e alla scrittura perfetta delle conversazioni del direttore del carcere (un bravissimo Fabio Troiano), pregne di saggezza e intrise di messaggi chiari e onesti che centrano il cuore del problema della realtà penitenziaria, della privazione della libertà e della sottomissione alle convenzioni.
Tutta colpa di Giuda è un film coraggioso e vincente che non vuole denunciare la condizione della vita carceraria, ma vuole semplicemente raccontare, con leggerenza e senza retorica, la pesantezza della reclusione mentale che immobilizza la riflessione intima di credenti e non, sui misteri della spiritualità e dell’assolutismo religioso.