Immagini che evocano più di mille parole. Anche di quelle stesse parole che hanno reso unici i dialoghi di Romanzo Criminale. Onori e glorie al talento creativo italiano.
Bravi!
Immagini che evocano più di mille parole. Anche di quelle stesse parole che hanno reso unici i dialoghi di Romanzo Criminale. Onori e glorie al talento creativo italiano.
Bravi!
Brividi e Nostalgia
UPDATE: Let’s try here
La prima cosa che mi viene in mente se ripenso a questa settimana appena trascorsa al Roma Fiction Fest è la totale disorganizzazione e i continui disguidi che hanno reso ogni giorno di questa rassegna, nata già vecchia e stantia, sempre meno piacevole.
Scrivo tutte queste considerazioni pur avendo messo da parte ormai l’acredine nei confronti di uno staff nervoso, ansioso e restio a comunicare risposte e indicazioni perché evidentemente mal coordinato nella totale incapacità di gestire gli spazi al cinema Adriano.
Un esempio su tutti: l’orange carpet allestito all’entrata principale, durante le sfilate del vippume, impediva l’accesso alle sale.
Più di una volta ho dovuto aspettare (e insieme a me tanta gente esasperata dai continui ritardi) che attori e codazzo vario sfilassero davanti ai fotografi, mentre nelle altre sale gli spettacoli si susseguivano come da programma.
Allo stesso modo era vietato il passaggio da una sala all’altra o si era costretti a uscire per poi rientrare nella stessa identica sala, dopo aver aspettato fuori eventuali contrattempi organizzativi e aver perso nuovamente l’inizio dello spettacolo.
Per non parlare di improbabili liste vip che avevano la priorità sugli inconsapevoli accreditati, lasciati ad aspettare in fila senza risposte sulla disponibilità dei posti in sala.
Insomma, quest’anno più che mai il Roma Fiction Fest mi ha deluso non solo per la sua caotica gestione, ma anche per la scarsa offerta artistica.
L’omaggio alla ABC (a cui è stato consegnato il RFF Award for Industry Excellence), ha previsto la riproposizione di vecchi telefilm che siamo normalmente abituati a ritrovare nei palinsesti pomeridiani estivi di Italia 1 o episodi random di grandi successi di serie tv straniere in gran parte già conosciute dal grande pubblico.
Inoltre il Concorso Fiction Italiana Edita, nato anche con lo scopo di rendere possibile la visione dei nostri prodotti delle scorse stagioni agli executives stranieri, è stato totalmente ignorato dal pubblico desideroso di conoscere le novità del panorama delle fiction (internazionali e non) e ha attirato invece gran parte di quel pubblico interessato alla sfilata del vip italico di turno.
Ma anche questo fa parte di un Festival che si rispetti, ahimè!
Qui i vincitori del Roma Fiction Fest 2010!
Il secondo incontro con Created by ci ha fatto conoscere Hagai Levi, il creatore del tv drama israeliano Be Tipul, dal quale è stata tratta la serie americana In Treatment.
La prima volta che Levi si rivolse a uno psicoterapeuta aveva 15 anni.
Poi smise e poi ricominciò.
Scoprì che il mondo interiore può essere rappresentato attraverso dialoghi e immagini minimaliste e nacque così l’idea di Be Tipul, racconti di vita che si dipanano attraverso il confronto di diversi personaggi con lo psicologo, Reuven Dagan.
Ma il terapeuta non è mai immune alle storie dei suoi pazienti.
In Be Tipul il protagonista è proprio Reuven e la parte più buia di sé che emerge dalle relazioni drammatiche coi suoi pazienti. Ciascuno di essi, infatti, è in grado di scardinare le certezze che lo hanno guidato durante gli anni della sua carriera professionale suscitando dinamiche relazionali conflittuali complesse.
Il set dressing è costituito da una casa con un grande giardino che viene spesso ripreso nelle inquadrature a significare che il mondo esterno è anche protagonista delle vicende dei pazienti. Lo studio terapeutico è al piano inferiore della casa privata di Reuven e sottolinea la profonda interferenza nella sua attività.
Reuven è sempre sul ciglio di una scogliera, in bilico tra il suo aspetto umano e quello professionale: terapeuta e paziente diventano così entrambi archetipi universali con cui confrontarci.
Ogni puntata racconta il caso di un singolo paziente attraverso 3 momenti di svolta (struttura in 3 atti):
Il lunedì è il giorno di Na’ama, vittima di un transfert verso il suo terapeuta il quale ammette di ricambiare i suoi sentimenti. Il controtransfert turba profondamente Reuven.
Il martedì invece tocca a Yadir, un pilota colpevole di aver sganciato, durante un’operazione di guerra, una bomba che fece molte vittime. Il senso di colpa sembra non opprimerlo, ma dietro alla sua paura di volare si nascondono i complessi rapporti con un padre autoritario e una moglie infelice che lo porteranno e essere vittima di un incidente aereo. Ma il dubbio che possa essere stato un suicidio mette Reuven di fronte ai propri limiti professionali.
Mercoledì è il turno di Ayala è una ginnasta teenager, reduce da un incidente automobilistico, che forse lei stessa ha causato. La ragazza rivela diverse analogie comportamentali con la figlia di Reuven.
Il giovedì è dedicato alla terapia di coppia: Michael e Orna, dopo innumerevoli tentativi di fecondazione artificiale, stanno finalmente per avere un bambino, ma qualcosa sembra essere cambiato. La loro incapacità comunicativa si rispecchia nel profondo disagio che Reuven sta vivendo nei confronti della moglie a causa di Na’ama.
Il venerdì Reuven passa dall’altra parte e dà voce ai suoi turbamenti personali di fronte alla sua terapeuta Gina.
Scrivere la puntata del venerdì, la più difficile, ha convinto Levi che la serie poteva funzionare in televisione.
Ma si rese subito conto che tale progetto non si sarebbe mai potuto vendere sulla carta.
Decise così di auto prodursi due puntate pilota (in fondo quel tipo di riprese con solo due attori e un’unica location, prevedono un budget molto risicato).
La tv via cavo in Israele, oltre a essere interessata al prodotto, è molto e ricca e può permettersi di sperimentare. Inoltre esiste anche una normativa che li obbliga a produrre un certo numero di tv drama.
Levi fu così messo nelle condizioni per girare tutta una prima serie dedicata a un pubblico intellettuale e nottambulo.
Scelse attori israeliani, molto rinomati e famosi (in Israele gli attori passano indistintamente dal cinema alla tv) e dalla seconda settimana Be Tipul divenne un fenomeno ottenendo ottime recensioni soprattutto per l’elevata qualità della scrittura.
Il tutto infatti si regge sulle parole: 30 minuti per 30 pagine di dialogo. Non c’è improvvisazione, ogni singola parola pronunciata è stata scritta e provata più volte.
Essendo uno stile molto realistico che ripercorre gli archetipi (molto lontano dallo stile parodistico del cinema di Woody Allen) il pubblico si è immedesimato talmente tanto che molti hanno intrapreso o ripresero un percorso di psicoterapia.
Lo stile registico è semplice ed essenziale e in fase di montaggio si cerca di affinare l’impatto emotivo dando rilievo anche al linguaggio non verbale che in certi momenti riesce a restituire compassione più di mille parole.
Levi è anche showrunner della serie ed è sempre presente sul set.
Nel suo team di scrittori c’è un headwriter con cui definisce i personaggi e le linee guida, e sceneggiatori dalla diversa formazione culturale, ma tutti rigorosamente con esperienze di personale percorso terapeutico.
Ogni scrittore gestisce un personaggio e costruisce la puntata che lo riguarda.
La supervisione e la riscrittura è definita invece dallo stesso Levi che si concentra soprattutto su Reuven affinandone le sue peculiarità.
Naturalmente risulta necessario anche un confronto con uno psicologo professionista che apporta le informazioni utili a dare credibilità alla storia. Durante questi incontri spesso si determinano le dinamiche della terapia di gruppo per cui lo scrittore struttura, lo psicologo destruttura.
Il format è stato riproposto in diversi paesi. Il più conosciuto è senza dubbio la versione americana In Treatment con Gabriel Byrne.
Adattare le stesse storie in paesi differenti è un lavoro complesso.
Ciascuno ha la propria cultura, tradizioni e dinamiche sociali differenti che determinano disagi differenti, per cui una donna quarantenne senza figli a New York rappresenta un caso estremamente comune che suscita un imbarazzo relativo rispetto alla percezione che può averne la società israeliana.
E poi non dimentichiamoci che Israele è uno stato che deve fare i conti con una guerra che li lacera da troppo tempo.
Ogni paese ha le proprie ferite.
Quali siano quelle italiane potremo scoprirlo presto.
Infatti Wilder e Rai 4 stanno lavorando al format coordinato dall’ headwriter Nicola Lusuardi.
Speriamo che questo progetto possa finalmente regalare prestigio all’immaginario della fiction italiana.
Anche quest’anno la SACT (Scrittori Associati di cinema e Televisione), in prossimità dell’inaugurazione del Roma Fiction Fest ha dato il via a Created by, un progetto di incontri e confronti con importanti autori stranieri di serie televisive.
Quest’anno la Casa del Cinema non ha potuto mettere a disposizione i suoi comodi e funzionali spazi per delle ragioni che io ignoro e che suppongo essere dovute alle proposte dell’amministrazione comunale di una trasformazione d’uso della struttura.
Il convegno si è spostato perciò, presso la sala del cinema dell’ANICA che ha accolto il primo ospite Toby Whithouse, creatore della serie Being Human, in onda sulla BBC Three e che ha conquistato nel 2009 il Writers’ Guild Award come migliore serie drammatica.
La serie giunta alla sua terza stagione, racconta la storia di 3 giovani ventenni che condividono un appartamento a Bristol come tanti altri ragazzi della loro età tranne che per una sostanziale differenza: sono un vampiro ultracentenario, un licantropo e un fantasma!
Sono “persone diverse” che aspirano, come suggerisce il titolo, a essere umani, a confondersi nel mondo con le loro normali storie. Personaggi inquietanti e misteriosi che si confondono nei labili confini del Bene e del Male trascinano i nostri eroi in un cammino oscuro costellato di scontri, scelte delicate e dolorose prove d’amore in cui ciascuno dovrà fare i conti con il proprio passato.
L’autore ha scelto di presentarci la quinta puntata della prima serie ricca di gran parte degli elementi fondanti dell’intreccio in cui si fondono drama, horror, fantasy e comedy esattamente come lo è la vita reale in cui si alternano sorprese e svolte ciascuna col proprio bagaglio drammaturgico.
In Being Human però i momenti comedy rasentano il ridicolo e disturbano la tensione emotiva piuttosto che completarla. Per stessa ammissione di Withuose, infatti, la prima versione dello script aveva la forma di sit-com, ma fu rivista perché la trama risultava troppo esile e mancava di carica emotiva, così come i personaggi troppo assimilati alla società. Tale residuo, a mio avviso, è ancora percepibile, ma mi riservo di contenere il giudizio avendone visto solo un episodio.
Mettersi nel mood di un film americano indipendente low budget, ha raccontato Withouse, gli ha permesso di dare vita a una struttura più forte e credibile e solo nel momento in cui si convinse che la serie non si sarebbe più fatta, si sentì libero di trovare la propria voce.
Il consiglio che ha regalato agli aspiranti sceneggiatori in sala è stato: scrivete come se il vostro script fosse destinato a un fallimento!
E fu così che la BBC rispose positivamente dirottandolo però verso il pubblico della BBC Three.
Il pilot riscosse molto successo e fu supportato dalle numerose mail di fan che tuttora continuano a proporre spunti e suggerimenti. Ma spesso le voci dei fan sono contraddittorie e questa è una delle ragioni per cui Withouse continua a scrivere seguendo le proprie idee.
E da ex attore l’ attenzione e la cura dei personaggi rimane comunque una priorità e un punto di partenza per l’evoluzione della trama.
Being Human contiene tutti gli ingredienti accattivanti per la succulenta fetta di pubblico dai 16 ai 25 anni, per quanto, Withouse si premura di sottolineare di non aver scritto pensando a un target specifico, ma di aver messo in scena ciò che egli stesso avrebbe voluto vedere.
Being Human è andato in onda in Italia sullo spazio SciFi di Steel che lo riproporrà dal prossimo agosto.
Negli Stati Uniti verrà prodotta una versione della serie di almeno 13 episodi che andrà in onda su Syfy.
UPDATE: Per chi volesse avere un’idea degli script originali la BBC mette a disposizione alcuni episodi nella sua Writersroom.
“What lies in the shadow of the Statue?” “Ille qui nos omnes servabit.”
E adesso, all’ombra del gran finale, chi ci salverà dall’astinenza da LOST?
Lost è stato un compagno fedele in questi sei anni. Insieme abbiamo condiviso momenti di tensione, suspance, dolore, stupore e attimi di stordimento. Lo abbiamo amato, cercato disperatamente, atteso che ci rivelasse lentamente i suoi misteri, ma dietro ai piccoli barlumi di verità ci ha rivelato ulteriori arcani, simbologie e rompicapo filosofico/esistenziali.
Ad ogni modo, sin dal pilot, il tocco magico di Jacob ha sfiorato ciascuno di noi risucchiandoci inevitabilmente nell’isola per affrontare un lungo viaggio interiore tra momenti di spiritualità, spiegazioni fantascientifiche e abbandono totale all’emotività.
In ogni personaggio abbiamo trovato una parte di noi stessi, un nostro difetto, una frustrazione, una comunione di sensi, un ideale di esistenza. Abbiamo amato prima l’uno, poi l’altro, ci siamo sentiti da essi traditi e riconquistati, fino a non poter fare più a meno di loro.
E adesso che non ci sono più, ci sentiamo abbandonati, delusi dalla mancata risoluzione drammaturgica di tutti i quesiti, avvolti da questa luce mistica e spirituale rappresentata con tutti i luoghi comuni della banalità e del sentimentalismo, cirocondati da quadri approssimativi e superficiali lontani da quella complessità e profondità a cui ci avevano abituati.
Lost l’ho amato col cuore e con la mente, e ho sofferto per il finale, per le spiegazioni non date e per quell’inevitabile abbandono al quale forse non ero pronta e che più mi ha emozionato nel momento in cui Vincent si accuccia davanti a Jack scrivendo figurativamente la parola fine.
Ma qualcosa rimane per sempre, le persone con cui abbiamo condiviso questa esperienza, una grande community legata dalla passione per questo un lungo racconto che ci ha accarezzato con i grandi interrogativi sull’ineluttabilità del destino e sulla forza del libero arbitrio, sul legame tra scienza e fede, sui confini tra il Bene e il Male, sulle ombre che risiedono in ciascuno di noi.
In qualche modo il destino ci ha fatto ritrovare in questa sideways reality e abbiamo dato vita a una community in cui ciascuno, connesso l’un l’altro, ha condiviso idee, visoni del mondo, teorie, conflitti interiori e momenti di ridanciana complicità come la Maratona Lost.
Una delle tante esperienze di vita reale in cui incontriamo tante persone che si oppongono al nostro cammino, che ci aiutano, che dicono una sola parola, quella giusta, persone che evocano la nostra parte più oscura, altre che ti stupiscono rivelandoti la bellezza del tuo mondo interiore. Le amiamo e le odiamo e questo legame durerà per sempre al di là dello spazio e del tempo. Qualcuno resterà per tutta la vita, di qualche altro rimarrà solo il ricordo, ma tutte avranno lasciato delle tracce indelebili nella nostra vita. La vita è un luogo che si costruisce insieme.
“This is a place that you all made together so that you could find each other” (Christian Shephard)
Con 43 mila presenze si chiude la terza edizione del Roma Fiction Fest che ha decretato i Buddenbroocks il miglior tv movie della stagione. Ma la lista dei premi e dei vincitori è molto lunga.
Non sono mancate le polemiche e le rivendicazioni da parte degli artisti, in particolar modo l’iniziativa di Pierfrancesco Favino (premiato come miglior attore per Pane e Libertà) che, con garbo, ha lasciato il premio sul palco dichiarando «Accetto il premio con gioia ma lo lascio qui. Tornerò a prenderlo quando saranno reintegrati le risorse per il Fondo Unico per lo Spettacolo». Tale gesto è stato anche ripetuto da altri suoi colleghi.
Ma al di là dei riflettori mondani e cerimoniosi, mi preme dare rilievo al convegno promosso dalla SACT, dal titolo: Created by- il ruolo dello showrunner nella produzione seriale americana ed europea, moderato con competenza e ironia da Marco Spagnoli.
Senza voler entrare nel cuore del dibattito, di cui hanno già scritto l‘uffico stampa del Fiction Fest e il blog SACT, posso ben dire che il progetto Created by è molto ambizioso e degno di stima ed entusiasmo, ma attorno ad esso c’è una gran confusione. E’ emerso da alcuni interventi degli stessi sceneggiatori (categoria che mi preme comunque tutelare) che non hanno la minima idea di cosa sia un processo produttivo di serialità e lo hanno dimostrato rivendicando un potere di controllo sullo sviluppo del processo, al fine di tutelarne esclusivamente l’identità. Ma l’identità non è necessariamente qualità!
Mi sembra che qui ci sia un conflitto di rivendicazione di potere e non una sana ambizione di garanzia di qualità.
La qualità parte dall’idea e si sviluppa in un continuo lavoro di squadra che porta alla messa in scena del prodotto, a tutela del quale deve esistere una figura professionale, che può essere anche uno sceneggiatore, ma che deve necessariamente avere competenze di regia e produzione. Non a caso tale figura viene chiamata Produttore Creativo.
Pertanto, è certamente un segnale forte la volontà di cambiare l’avvilente status quo in cui è costretta la fiction italiana attraverso l’idea di promuovere percorsi formativi per tale figura. Ma finchè la televisione generalista, che deve pur sempre fare i conti con lo share e la vendita degli spazi pubblicitari, continuerà a investire nel vecchio, nel già visto, allontanando da sè ogni sfida al cambiamento e alla sperimentazione, la fiction italiana di qualità, che esiste e può continuare a evolvere, rimarrà un prodotto di nicchia, condannando il pubblico generalista all’inebetimento cerebrale.
La televisione generalista, per delle ragioni a me sconosciute, si ostina a negare l’esigenza di innovazione che lo stesso pubblico in fuga chiede a gran voce. Il fattore rischio è molto più basso di quanto si possa immaginare e lo dimostra il successo che le serie straniere continuano ad avere nel nostro paese. La domanda c’è, basta saperla ascoltare e accoglierla attraverso lo sviluppo di nuove idee di cui, la televisione, ha il dovere di farsi promotore, per il bene di se stessa e della nostra società.
La televisione generalista è sull’orlo del suicidio, ma ancora non lo sa.
Aspettavo con curiosità la messa in onda di Zodiaco e devo dire che sono, tutto sommato, soddisfatta.
Zodiaco è una miniserie in quattro puntate che narra le vicende di una ricca famiglia di banchieri torinesi la cui serenità (solo di facciata) viene turbata da una serie di omicidi che hanno il sapore dell’occulto e del paranormale. Protagonista Antonia Liskova, brava attrice lanciata da Incantesimo, che è riuscita ad emergere nel panorama delle fiction italiane facendo, man mano, scelte sempre più coraggiose. Come quest’ultima prodotta dalla stessa Rai e dalla Casanova Entertainment, casa di produzione fondata dall’odiato e irriverente Luca Barbareschi, che, nonostante il suo carattere strafottente e spocchioso e le sue idee politiche tutt’altro che condivisibili, ha il merito di mostrare se stesso per quello che realmente è, compreso un bravo attore, e il coraggio di osare e sperimentare. Tanto di cappello quindi a questa coraggiosa scelta che ha visto la complicità della Rai, abitualmente avvezza a proporre e riproporre sempre le solite storie rassicuranti e condite di buonismo. Mi chiedo come mai tutto ciò sia potuto accadere. Ma senza sprecarci in illazioni di alcun genere, vorrei dare il mio giudizio positivo sulla sceneggiatura (di Mimmo Rafeli) scritta con sapienza e dovizia di particolari e con una maestria progettata a tavolino che semina indizi senza raccontare troppo, che lascia spazio all’immaginazione, che costruisce il ritmo della tensione emotiva immergendosi completamente nell’atmosfera misteriosa di una Torino ricca, nobile e borghese, ammantata dal fascino del mistero e dell’esoterismo puro.
In questa prima puntata in cui sono stati presentai i protagonisti con il loro pesante carico di ambiguità, la regia consapevole e dinamica di Eros Puglielli guida la macchina da presa insieme ai personaggi in un balletto dal ritmo incisivo e diretto all’effetto visivo raccontando il necessario senza cedere alla tentazione di inutili virtuosismi. Il mistero, la forza occulta e paranormale si insinua lentamente in quasi tutte le scene e avvolge la storia intricandola man mano attraverso l’uso di simboli (lo schema astrale) e miti eterni (le centurie di Nostradamus).
Se la nuova filosofia di Rai Fiction si nutrirà finalmente di rischio e audacia, sarà una grandissima vittoria per quella vasta massa di pubblico che spera e desidera vedere prodotti nuovi e innovativi. That’s Entarteinment…too.
Certo, Zodiaco non è propriamente italiano, è un format francese adattato – pure troppo – alla cultura italiana (vedi il poliziotto figo e provolone…) ma mi lascia sperare che forse qualcosa sta cambiando.
Gli interessi in gioco sono tanti, pertanto non mi resta che sperare nei dati auditel che possano promuovere questa nuova fiction a pieni voti.