Non ci sono più i vecchi semafori di una volta!
Quelli che hanno accompagnato la mia adolescenza nei film americani degli anni ’80, quelli che indicavano lo stop con un rosso ammonitore DON’T WALK e ti invitavano ad attraversare con il verde WALK! Sono stati sostituiti da una mano rossa minacciosa e un bianco omino che accenna a un passo.
E’ un truma che ho già subito a Berlino Est quando decisero di sostiuire i vecchi Ampelmännchen con i semafori standardizzati di tutta Europa.
Ma questa triste considerazione non può fermare gli ultimi momenti di vita neyorkese. La caviglia destra ha ceduto sotto lo sforzo delle lunghe camminate quotidiane, una crema all’arnica allevia le sofferenze, ma il desiderio di visitare ancora la città è incombente. Zoppicando percorriamo il ponte di Brooklyn, la cui parte pedonale è sopraelevata rispetto alle corsie delle auto che sfrecciano creando un effetto dondolìo poco rassicurante. Si vedono i grattacieli di Manhattan e, piccola piccola, in mezzo alla baia, si scorge la Statua della Libertà.
Lentamente raggiungiamo il traghetto che ci porta a Ellis Island, residenza ora del Museo dell’Immigrazione, ma un tempo “porta della speranza” che accoglieva gli emigranti del vecchio continente. E ripenso agli alberi di monete, le galline giganti e i fiumi di latte che vivevano nei sogni dei nostri connazionali e che Crialese riuscì a dipingere nel suo capolavoro cinematografico. Ma il museo è una specie di enorme sanatorio diviso in un grande atrio al piano terra e, ai piani superiori, le diverse stanze adibite ai controlli sanitari e doganali. Rimane freddo e asettico e non riesce a colmare le mie aspettative emotive.
Ormai la giornata sta per finire, ci rimane il tempo solo per l’acquisto di qualche pensierino, ma a Manhattan, a parte gli atelier inaccessibili ($$$) di SoHo, ci sono gli stessi negozi di Roma e trovare qualcosa di tipico americano è davvero difficile. Entriamo da Macy’s, i grandi magazzini più estesi del mondo, ma ne usciamo quasi subito. Non ci rimane che spulciare tra le americanate dei New York Gift Shops, dove non mancano le T shirt
E’ ora di cena, l’ultima cena newyorkese. Vogliamo accomiatarci con riverenza dalla città che ci accolto e ci lasciamo fagocitare dal ristorante americano più turistico della città, l’Ellen Stardust Diner, nel cuore di Broadway. Gli anni ’50 sono pacchianamente ricostruiti attraverso foto di Dean Martin, Frank Sinatra, Marilyn e Betty Page, vinili appesi al muro e un piccolo trenino che viaggia su piccole rotaie che circondano il locale. I camerieri agghindati alla Grease ci accolgono con sorrisi a 32 denti e danzando ci accompagnano al tavolo. Sono affabili e gentili sorridono e si lasciano andare a battute forse anche divertenti, se solo riuscissimo a coglierle. Il volume della musica è alto, ma non fastidioso. In una mano sorreggono grossi piatti ricolmi di hamburger, patatine fritte, onion rings e tutte le grasse delizie della cucina americana, nell’altra stringono con ardore un microfono e danno sfoggio delle loro notevoli doti canore. Spaziano dal pop al country, ma danno il meglio di sè nei classici del musical. C’è persino chi sfida Pavarotti intonando un improbabile, ma divertente Nessundorma. Volteggiano tra i tavoli e improvvisano tip tap sulle spalliere dei lunghi divani. Non riescono a smettere di sorridere e sorridere e seducono i clienti con la vecchia storia del sogno americano che vive proprio lì fuori a due passi da loro: Broadway e i grandi teatri del musical. Ma le lezioni di canto e ballo, ahimè, hanno un costo elevato… Signori turisti, il nostro futuro dipende dai vostri portafogli! Gli occhioni languidi sono un ulteriore incentivo alla nostra generosità che ricolma un grosso cesto di special tips (mance speciali) che si aggira attorno ai tavoli.
Mi faccio contagiare dall’entusiasmo del turista ingenuo e appassionato, ormai sono parte attiva di questo felice quadretto preconfezionato: non riesco a contenere l’impeto di scattare un’infinità di foto inutili e mi scateno insieme a loro, canto, ondeggio e batto le mani a tempo. Sublimo così la stanchezza di questi straordinari giorni newyorkesi.
E’ il momento di rientrare in patria. Il languore mi assale, quante cose non ho vissuto di New York, dai musical di Broadway al Guggenheim Museum, dai gospel di Harlem ai concerti del Blue Note, dalle partite dell’ NBA alle vanitosissime Nail Spa.
Ma quello che più mi è mancato sono stati i newyorkesi, entrare nelle loro vite, correre con loro, e soprattutto vivere la città come una di loro.