Anche quest’anno dedicherò gran parte del mio tempo a seguire il Roma Indipendent Film Festival che promuove la cinematografia indipendente italiana e straniera. Le proiezioni sono affidate al Cinema Aquila, in pieno quartiere Pigneto, che offre anche diversi locali, ancora a prezzo politico, dove trascorrere il tempo tra un lungo e un cortometraggio.
Ieri sera ho assistito al film Fish Tank, una produzione inglese diretta dalla regista Andrea Arnold, che ne ha scritto anche la sceneggiatura.
Nel 2006 la regista vinse il premio della giuria al festival di Cannes con il suo primo lungo dal titolo Red Road. Red Road è un quartiere periferico di Glasgow dove sorgono delle alte torri abitative in cui si concentrano migliaia di persone controllate 24 su 24 da telecamere di sicurezza. Qui lavora una donna, addetta al centro di sorveglianza, dalla vita noiosa e insipida, fino a quando, in uno dei monitor, scorge la figura dell’uomo che anni prima le ha sconvolto la vita. Decide di elaborare così la sua vendetta.
Fish Tank, invece, racconta la storia di formazione di Mia, una ragazza quindicenne ritratta nel suo ambiente crudo e degradato, evocato da immagini secche ed essenziali, prevalentemente con macchina a mano, che restituiscono l’odore dei sobborghi dell’Essex. Quell’odore di fish tank, espressione gergale che è anche sinonimo di pussy, derivata dal fatto che sometimes smells like a fish. Ma è anche l’odore della bravissima protagonista Katie Jarvis, perfettamente a suo agio in quei casermoni di periferia tra i quali si muove portandosi appresso rabbia e sofferenza.
E la vomita già dalle prime scene raccontandoci l’astio verso una madre degenere in un’unica battuta: “You are what’s wrong with me!”, e in una violenta testata contro una delle ragazzette del quartiere che la sfidano a colpi di sensuali ancheggiamenti a ritmo di hip hop.
Ma la passione per la musica R&B scorre anche nel sangue di Mia, che ritrova il suo angolo di libertà in un appartamento vuoto dove si rifugia per danzare. E si allena, senza mai sorridere. Non è brava, non riesce a lasciarsi andare, è trattenuta e allora corre, raggiunge un campo di nomadi che tengono legata una vecchia cavalla malata. Mia vuole liberarla e ci tenta in tutti i modi, senza riuscirci. Chissà, forse quella cavalla le regala la suggestione di una libertà, forse Mia sogna di salirci sopra e correre via. Via da quell’universo che l’ha resa arcigna e violenta, via da Connor, il nuovo uomo di sua madre che entra nella sua vita e le regala complicità supportandola nella sua grande passione, il ballo. Mia danza per lui in una memorabile scena perfettamente diretta attraverso particolari e dettagli di sguardi e piccoli gesti con cui la ragazza comunica la sua timida sensualità. Ma da quel momento tutto cambia in un susseguirsi di scene in cui Mia raggiunge il momento più basso di brutalità, ma non riesci a volerle male, anzi forse in un attimo speri che porti a compimento il suo piano nel peggiore dei modi.
Mia conosce solo parole aggressive. Può parlare d’amore esclusivamente ballando ed è attraverso la complicità di alcuni semplici passi di danza che riesce a creare un unico momento di solidarietà con la madre e la sorellina in un finale forse anche prevedibile, ma l’unico possibile che completa il film nella sua credibilità.
UPDATE: Vincitore del Premio Miglior Lungometraggio