Il Metropolitan sarà pure uno dei musei più grandi del mondo, ma mi fa rimpiangere le tanto odiate freccette direzionali sul pavimento dell’Ikea. Mi perdo nei corridoi tentacolari tra virili bellezze ellenistiche, corpulente armature medievali, vetusti sarcofagi egizi e suppellettili frantumate. Riprendo fiato coi capolavori dell’Impressionismo, i ritratti di Modigliani e poi le ballerine di Degas, la borghesia francese di Toulouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Renoir…
In un angolo del 2° piano una giovane artista stende una coperta per terra a riparare il pavimento dagli schizzi dei colori ad olio che cadono dalla sua tela, poggiata sul cavalletto, che riproduce in parte il “Soap Bubbles” di Chardin. Accende il suo I-pod con lo sguardo fisso sul quadro, l’originale, inserisce le cuffie nelle orecchie e la musica la avvolge e la protegge come fosse in una bolla di sapone. Intinge il pennello e riprende da dove aveva lasciato. E io decido che ormai la mia visita è conclusa.
E’ il MoMA il mio museo! Incomincio il mio viaggio nell’arte moderna e contemporanea mondiale e non mi stanco neanche un po’, incuriosita e stupita dalle installazioni e dalle sperimentazioni che mi fanno venir voglia di assemblare materiali, colori e idee. Non sono un artista nel senso quotato del termine, ma posso divertirmi anche io! E così prendo appunti su progetti e decorazioni.
Mi faccio attrarre dai colori che mi inducono al sorriso e trovo piacevoli conferme nei quadri di Chagall primo su tutti, Dalì, Magritte, scopro tanti autori nuovi. E mi ricordo che non mi piace Pollock.
Mi rendo conto che c’è dell’arte che non capirò mai o, forse, non me ne accorgo ma la capisco, dato che mi rimane impressa. Parlo di Tehching Hsieh e le sue one year performance, come, per esempio, essere rinchiuso per una anno all’interno di una cella nel suo loft di SoHo, fotografato costantemente, senza poter nè parlare, nè leggere, nè scrivere, nè tv, nè radio, nè avere alcun contatto con alcuno se non un amico che provvedeva al suo nutrimento. O come rimanere legato con una fune a una donna senza nè toccarla, nè rivolgerle la parola per un anno e altre simili situazioni estreme…
Che ciò sia arte? Mah, le definirei più che altro sfide “creative” che l’uomo attua contro se stesso per soddisfare esaltazione del prorpio ego e masochismo in un colpo solo. Ma questa è solo un’opinione.
Il vento soffia freddo e forte in questi ultimi giorni nella Grande Mela e io e Marco ci lasciamo tentare da un’altra tendenza che accomuna tutti i newyorkesi, la ear band, ossia un banale paraorecchi, tanto sottovalutato all’inizio, ma che invece dà una svolta concreta alla nostra capacità di sopportazione al freddo. E così, mano nella mano, guanto nel guanto, ci inoltriamo nella City.
Con le orecchie al calduccio mi accorgo che i rumori della città sono attutiti, è una sensazione piacevole, continuo a osservare la gente che cammina spedita e improvvisamente realizzo il perchè, perchè i neyorkesi vivono in simbiosi con l’ I-pod! Il frastuono, i clacson, le sirene, i motori, i cantieri… Per giorni ho comunicato urlando perchè a New York la voce della gente è sopraffatta dal rumore!!!
Scendendo verso Downtown, lungo la Broadway, i grattacieli lasciano il passo a palzzoni ingrigiti dallo smog. Negozi di borse cinesi si alternano a botteghe zeppe di Obama’s stuff, merchandising improbabile che celebra il culto del 44° Presidente degli Stati Uniti: magliette, calzini, mutande, orologi, tazze, borse, pupazzi, profumi e prevervativi di Obama, ma only big size!!!
Una frotta di afroamericani, solo afroamericani, cammina lungo la strada, chi parla al telfono in giacca e cravatta, chi si saluta seguendo una certa ritualità, chi cerca di venderti qualcosa, chi sempilcemente si fa i fatti suoi. Il quartiere è decisamente multiculturale e ci faccio caso perchè non sono abituata, perchè sono italiana.
Qualche isolato dopo comincia NoHo, dove la fa da padrone l’ interior design.
A Chinatown insegne, strisconi e lanterne decorano le vie. Il rosso e il giallo oro illuminano il quartiere movimentato da ristoranti, negozietti di elettronica e di abbigliamento. C’è anche un poco attraente tempio buddista ricavato in un locale al pian terreno di una palazzina. Gli ideogrammi vivono anche sulle insegne delle banche e degli uffici pubblici, i cinesi parlano cinese tra di loro.
A Little Italy gli italiani si aggrappano alla tradizione della nostra cucina e affiggono le foto autografate di Toni Soprano alle vetrine. Colorano gli stand pipes (colonnine con fontana che si vedono per strada) di bianco rosso e verde e espongono qua e là il tricolore. Little Italy è molto più piccola di Chinatown e gli italiani parlano americano tra di loro.