Louise Michel (1830-1905) è stata un’anarchica francese che, per rivendicare il diritto all’educazione per le donne, fu deportatata dalla Comune di Parigi in Oceania, dove continuò a dare voce concreta ai suoi ideali di uguaglianza tra i sessi.
Sua frase celebre è Ovunque l’uomo soffre nella società maledetta, ma nessun dolore è paragonabile a quello della donna.
Ma in questo film il dolore è universale e attanaglia Louise, che donna non è, e Michel che un uomo non è. Nasce così la coppia strampalata e bizzarra di Louise e Michel e il loro patetico viaggio vendicativo in cui non c’è ormai più nulla da perdere e l’estremo e l’assurdo diventano il normale e il giusto.
La trama, la spietata vendetta contro “il padrone”, così chiamato non a caso, è originale, attuale e portata all’estremo. Riusciranno i nostri eroi a vendicare il torto subito dal capitalismo imperante? Sin dalla prima scena veniamo introdotti in questo mondo alienato, dove la lotta di classe è organizzata attorno al tavolo di un bar: 10 operaie che hanno perso il lavoro a causa della vendita improvvisa della loro fabbrica, decidono di mettere insieme la liquidazione per assoldare uno spietato killer che ammazzi il padrone. Ma l’impresa è molto più complessa di quanto sembri e si snoda tra vicende in cui la fame, abilmente rappresentata in due scene, quella del piccione e quella del coniglio, non vuole essere oggetto ne’ di un’urlata denuncia sociale ne’ di compatimento, ma rappresenta il punto estremo di non ritorno per cui l’omicidio diventa la più naturale e umana delle soluzioni possibili.
Lunghi silenzi interrotti da dialoghi bizzarri, perfettamente consoni all’atmosfera strampalata, inquadrature fisse, tinteggiate da colori insaturi, sono i componenti di un film in cui alcune situazioni surreali, animate da geniale comicità, sono però troppo slegate dal racconto e, piuttosto che condire d’arte la pellicola, distraggono e allontanano dalla condivisione empatica dell’obiettivo dei nostri eroi. E si arriva anche a provare un certo disgusto quando ci si fa sberleffo della vita nel coinvolgere chi, di speranza davvero non ne può più avere, i malati terminali. Uno scivolamento troppo profondo nel cattivo gusto che provoca una ferita insanabile nell’empatia.
Alla fine, nonostante tutto, giustizia è fatta e una nuova nascita ha il sapore di una speranza rinnovata.
Questa ricca e astrusa metafora è troppo scombinata e non riesce a restituire la denuncia che sottende il film.
Ottimi ingredienti, mal mescolati, in una minestra acida, corrosiva e sarcastica.