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Tutta colpa di Giuda

tuttacolpadigiuda“Un film dentro al carcere” come ha voluto precisare il regista, Davide Ferrario.
Il carcere infatti è una delle tante immagini che parlano di privazione della libertà, di coercizione, di negazione. Quale luogo migliore, luogo che Ferrario ben conosce per gli anni di volontariato trascorsi a San Vittore, per inscenare il dogmatismo religioso?

Irena (Kasia Smutniack, dalla presenza scenica ineccepibile) è una giovane regista che porta il teatro e la recitazione a un gruppo speciale di carcerati che interpretano se stessi con estrema professionalità e presenza scenica. Dopo un’iniziale incomprensione, nasce un gruppo di lavoro forte e coeso accomunato da un’ unica nostalgia, il sapore della libertà. E danzando e cantando seguono le tracce, a loro incomprensibili, del percorso artistico di Irena.

Ma poi arriva il cappellano e si deve mettere in scena la Passione di Cristo. E Irena, poco avvezza alle temtiche religiose, accetta la sfida e si inerpica lungo un cammino tortuoso che termina davanti a un muro troppo alto anche per lei: nessuno vuole interpretare la parte di Giuda l’infame! E Irena si immerge nella lettura critica dei Vangeli e trova la soluzione, raffigurando l’umanità di Cristo al di là del dogmatismo religioso:  la redenzione deve necessariamente passare attraverso la sofferenza?
Il sacrificio ha diverse facce, di cui la sofferenza è solo una delle tante. Ed ecco che la riconciliazione con Dio prende le sembianze di una lirica gioiosa che rende sacro il canto della libertà.

La semplicità strabordante del linguaggio restituisce tutta l’intensità della storia, facendone uno dei punti di forza insieme alle immagini genuine che danzano sulla musica e dentro la musica e alla scrittura perfetta delle conversazioni del direttore del carcere (un bravissimo Fabio Troiano), pregne di saggezza e intrise di messaggi chiari e onesti che centrano il cuore del problema della realtà penitenziaria, della privazione della libertà e della sottomissione alle convenzioni.
Tutta colpa di Giuda è un film coraggioso e vincente che non vuole denunciare la condizione della vita carceraria, ma vuole semplicemente raccontare, con leggerenza e senza retorica, la pesantezza della reclusione mentale che immobilizza la riflessione intima di credenti e non, sui misteri della spiritualità e dell’assolutismo religioso.

Louise-Michel

louise-michelLouise Michel (1830-1905) è stata un’anarchica francese che, per rivendicare il diritto all’educazione per le donne, fu deportatata dalla Comune di Parigi in Oceania, dove continuò a dare voce concreta ai suoi ideali di uguaglianza tra i sessi.
Sua frase celebre è  Ovunque l’uomo soffre nella società maledetta, ma nessun dolore è paragonabile a quello della donna.
Ma in questo film il dolore è universale e attanaglia Louise, che donna non è, e Michel che un uomo non è. Nasce così la coppia strampalata e bizzarra di Louise e Michel e il loro patetico viaggio vendicativo in cui non c’è ormai più nulla da perdere e l’estremo e l’assurdo diventano il normale e il giusto.
La trama, la spietata vendetta contro “il padrone”, così chiamato non a caso, è originale, attuale e portata all’estremo. Riusciranno i nostri eroi a vendicare il torto subito dal capitalismo imperante? Sin dalla prima scena veniamo introdotti in questo mondo alienato, dove la lotta di classe è organizzata attorno al tavolo di un bar: 10 operaie che hanno perso il lavoro a causa della vendita improvvisa della loro fabbrica, decidono di mettere insieme la liquidazione per assoldare uno spietato killer che ammazzi il padrone. Ma l’impresa è molto più complessa di quanto sembri e si snoda tra vicende in cui la fame, abilmente rappresentata in due scene, quella del piccione e quella del coniglio, non vuole essere oggetto ne’ di un’urlata denuncia sociale ne’ di compatimento, ma rappresenta il punto estremo di non ritorno per cui l’omicidio diventa la più naturale e umana delle soluzioni possibili.

Lunghi silenzi interrotti da dialoghi bizzarri, perfettamente consoni all’atmosfera strampalata, inquadrature fisse, tinteggiate da colori insaturi, sono i componenti di un film in cui alcune situazioni surreali,  animate da geniale comicità, sono però troppo slegate dal racconto e, piuttosto che condire d’arte la pellicola, distraggono e allontanano dalla condivisione empatica dell’obiettivo dei nostri eroi. E si arriva anche a provare un certo disgusto quando ci si fa sberleffo della vita nel coinvolgere chi, di speranza davvero non ne può più avere, i malati terminali. Uno scivolamento troppo profondo nel cattivo gusto che provoca una ferita insanabile nell’empatia.
Alla fine, nonostante tutto, giustizia è fatta e una nuova nascita ha il sapore di una speranza rinnovata.

Questa ricca e astrusa metafora è troppo scombinata e  non riesce a restituire la denuncia che sottende il film.
Ottimi ingredienti, mal mescolati, in una minestra acida, corrosiva e sarcastica.

La valigia vicino alla porta

Sono passati 3 o forse 4 giorni dal terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo. Non riesco più percepire lo scorrere del tempo, tutto mi sembra sospeso e incerto più che mai. Ondeggio tra la paura che il letto possa scuotermi fino a farmi precipitare, e il senso di colpa per aver provato quella paura che è reale solo negli occhi di chi ha visto crollare le proprie case e sotterrare per sempre figli, genitori, fratelli, amici.
Pietrificata dalla paura, ora so cosa vuol dire. L’ho imparato quella notte. Devo prendere qualcosa, ma cosa, devo vestirmi, ma come, devo telefonare, ma a chi, e mentre questi pensieri lentamente si alternavano nella mente, con espressione ebete, osservavo Marco che accendeva il pc. Perchè? Perchè era l’unico modo di sapere cosa stesse realmente accadendo. Twitter, Facebook, Friendfeed ci hanno costantemente restituito aggiornamenti, paure, sensazioni, ma io continuavo a fissare il lampadario che, immobile, sembrava in attesa del segnale dalla madre terra per riprendere la sua danza. Ormai la terra non avrebbe più tremato per quella notte, ma la gente continuava inesorabilmente a morire. Sopraffatta dall’ impotenza mi sono seduta sul divano, nel salone, vicino alla porta di ingresso, ho visto un film, ho seguito la trama con la stessa attività  cerebrale di un mulo che segue una carota. I recettori annullati dagli eventi.
E adesso più che mai, disgustata dalle nefandezza umana degli sciacalli, afflitta dalle immagini di distruzione, nutro profonda compassione per quella terra vicina, forte e gentile.
Ho difficoltà a riordinare i miei pensieri in forma leggibile.
Faccio tutto come prima, leggo, riesco a dormire e anche tanto, troppo, mangio, studio, vado in palestra, faccio la spesa e cucino sempre meglio. Tra un po’ andrò al cinema, caverna oscura da cui è difficile fuggire, rivedrò un vecchi0 amico.
Nulla nella mia vita è cambiato. Eppure mi sento monca, qualcosa ha spento i miei recettori, come un robot ben programmato, mi aggiro in questa vita alla ricerca dell’interruttore.

Ma non lo ritroverò finchè quella valigia, quella delle emergenze, rimarrà vicino alla porta di casa mia.

Dogma 008, ce n’era bisogno?

Per evitare di esporre in maniera inappropriata il mio disagio emotivo nei confronti di quanto stavo ascoltando ormai da troppo tempo, mi sono alzata indignata e ho abbandonato la sala. Ora, a distanza di 2 giorni, me ne pento amaramente ritenendo che un contraddittorio sarebbe stato opportuno e chiarificatorio. Soprattutto per me, in quanto non riesco a capacitarmi del fatto che un’associazione seria come il RIFF abbia offerto spazio e tempo per la conferenza più vanesia a cui abbia mai assistito.
Sto parlando del famigerato manifesto del dogma 008.
Non ho nessuna intenzione di addentrarmi un un’analisi dettagliata di cotale manifesto, perchè le immagini parlano più di mille parole. E invito chiunque a visitare le innumerevoli pagine di You Tube marchiate da Jonny Triviani o Dogma 008 o Eden e tutto ciò ad essi connesso. Qualche suggerimento? Qui Qui e Qui e infine qui.

Il movimento è stato creato e fondato su precise regole espresse nel manifesto pubblicato nel 2008 dalla società Margot Produzioni Srl e in particolare dai suoi soci fondatori: gli attori e registi Jonny Triviani e Giulia Carla De Carlo.

Le mie sono le semplici considerazioni di fruitrice di prodotti multimediali con una discreta esperienza nel settore e mi perplime l’idea di una evoluzione del Manifesto di Lars Von Trier del Dogma 95, il quale si proponeva semplicemente di riscoprire una veridicità artistica al di là di effetti speciali e alterazioni tecnologiche.
Al di là di qualunque idea di condivisione e non, questo scimmiottare la sacralità di un movimento che ha avuto il suo riconoscimento in pellicole di alto valore artistico, da Idioti a Festen, è sgradevole e superbo. Dove sta l’analisi, la rivisitazione, l’evoluzione di questi concetti che dovrebbero ruotare  intorno all’idea della purezza dell’arte? Io non trovo nulla di innovativo, nè tantomeno artistico  in questo dogma 008, la sua inappropriatezza nasce dal nome e si potrae in tutti i 10 concetti cardine che, a mio avviso, non sembrano altro che un elenco di banalità sconcertanti che non aprono nessun nuovo scenario artistico, ma che piuttosto instillano il dubbio che dietro questa sedicente ideologia ci sia semplicemente incapacità e un vuoto creativo buio e profondo.

Gran Torino

gran_torinoE sul finale del film, lo scombussolamento emotivo che vibrava da un’ora e mezzo nel mio petto è esploso in un irruente effluvio di calde e dense lacrime. La poltrona del cinema continuava ad avvolgermi e mi rassicuravano, coccolandomi, le note di Gran Torino cantata dalla voce roca di Clint Eastwood.

Walt, pardon, Mr. Kowalsky, è un veterano della guerra di Corea, è lo yankee che vive di tutto ciò che di americano gli è rimasto, il suo giardino, il vecchio cane Daisy, birra, sigarette e l’americanissima Ford Gran Torino. Tutt’intorno c’è un’ America che cambia nei vestiti succinti della nipote e nel vecchio quartiere multietnico che segnerà il cammino della sua Redenzione.
Il film ha un cuore grande che palpita e che non ha bisogno di alcun orpello stilistico per restituire tutta la sua potenza emotiva. Una drammaturgia perfetta disegnata da immagini secche e pulite che rivelano il mondo interiore di un uomo attraverso un ringhio minaccioso e una mano che mima una pistola.
E se le parole sono importanti, quelle pronunciate da Walt sono piene di rabbia e di invocazioni razziste, ma nascondono il dolore e la colpa di un passato troppo presente che ritrova negli occhi a mandorla dei suoi vicini, i quali, inconsapevolmente, gli indicheranno essi stessi il cammino verso la liberazione.
Ed è un percorso oltre ogni moralistica interpretazione, è l’Uomo che raggiunge l’apice della sua Salvazione attraverso azioni concrete che ne mostrano il limite, ma allo stesso tempo la massima virtù dell’Uomo stesso, il Sacrificio.
Mai tanta Spiritualità è stata così Umana e terrena!

R.I.F.F.

riffAnche quest’anno il Roma Indipendent Film Festival ci regala le immagini, spesso innovative, della cinematografia indipendente.
Sono i cortometraggi, con il loro linguaggio essenziale e diretto ad attirare maggiormente il mio interesse.
Ieri ho assisitito all’Italian Short Film 2 e ho scoperto delle piccole, ma anche grandi storie, raccontate spesso con maestria, altre volte attraverso immagini stereotipate e ridondanti.

Alba di Giorgia Farina,  racconta il dolore di una madre per la malattia del proprio bambino il quale, con un salto fantastico, si trasforma in un cavaliere coraggioso che lotta contro un drago malvagio. Animazione e realtà si alternano sullo schermo restituendoci un duello intenso che termina all’alba di un nuovo giorno.

Il Primo Mare, di Antonella Cappuccio, è l’avventura che i figli intraprendono quando lasciano la casa di famiglia per costruirsi la propria vita. Una madre, incapace di accettare l’abbandono, si ritrova al centro di un dialogo frenetico con le proprie bambole che ella stessa crea e cuce, le quali, attraverso racconti, miti e perle di saggezza la portano all’accettazione del naturale distacco. Esplosioni di colore in questo palco dalla scenografia curata in ogni dettaglio e resa ancora più viva dallo sguardo incantato della protagonista, Antonella Attili, che è riuscita ad emozionare nonostante i dialoghi un po’ inconsistenti e la struttura della storia un po’ vacillante.

Un’infermiera di nome Laura di Stefano Viali, prodotto dall’ingegnosa e giovane Fake#Factory,  narra l’inquietante solitudine mentale di Pietro che si ritrova in un umido e angosciante ospedale dove la lotta di potere, prescritta dalla conturbante infermiera Laura, codifica l’assurdità di questo non luogo, che diventa l’unica certezza di un’identità perduta.
La costruzione drammaturgica circolare somministra tensione continua attraverso l’uso di dialoghi puliti e lineari, luci e ombre accattivanti, interpretazioni sublimi.

to be continued…

Una motosega per Brandon Sclero

unamotosegaperbrandonsclero1Cosa succede quando un anarchico connaturato e un poeta stralunato si incontrano?
Nasce una bizzarra alchimia di parole, significati e riflessioni.

Un viaggio di un bambino nella memoria degli anni 70 rivissuta con nostaglica chiarezza e che restituisce i sogni e i valori di una gioventù così lontana dalla nostra, ma pur sempre idealista e disperata. Sono le suggestioni di Mauro Gasparini.

E l’assurdo trova una sua logica nelle poesie di Guido Catalano, parole sparate d’impatto nell’aria, che esplodono in fragorose  e succulenti risate.  Una bizzarra allegria pervade il corpo e l’anima.

I fuochi d’artificio dell’estro scoppiettano illuminando la serata molto più di quanto possa fare una stella del cielo, che altro non è che una palla di fuoco e di gas.
Ma tutto rimane al proprio posto, i nani nelle docce, gli scarafaggi nella cucina, e l’Amore dentro Kill Bill, perchè quello è il loro posto, anche se sono pochi quelli che lo sanno.

E domani 21 marzo, si ripete al Cafè Letterario di Via Ostiense a Roma.

Accorrete numerosi, accorrete!

Religiolus

religulousUn documentario, un viaggio dissacrante attraverso i luoghi delle religioni mirato al dialogo e al confronto.
Bill Maher non si fa portatore di un ateismo dogmatico, ma è proprio contro il dogma e il fanatismo che si schiera, a favore dell’ umano e ragionevole dubbio. Partendo da un lecito agnosticismo, il comico/giornalista Maher ricerca il contraddittorio, senza per questo tralasciare battute e ironia sagace e raffinata, in fondo rimane sempre uno show man che ha costruito il proprio successo sul Politically Incorrect.
Assistiamo all’incontro con politici che celano dietro al vessillo della religione la giustificazione alle proprie strategie di potere e grazie all’abilità comica di Maher preferiamo riderci su, perchè basterebbe ripensare alle polmiche sulla Vita delle scorse settimane per cadere nello sconforto più nero.
Riesce a indurci una simpatica compassione persino per i personaggi bislacchi che si credono, o meglio, vogliono far credere di essere nuovi Messia e si fanno interpreti delle leggi di Dio ad personam.
Ma fatta la legge trovato l’inganno! E così abili ebrei ortodossi, con orgoglio, mostrano i ritrovati tecnologici più astrusi per raggirare i divieti che impone lo Shabbat.
Ma il trionfo della mistificazione del profondo senso della spiritualità è teatralmente ricostruito nella Holy Land Experience, una sorta di parco di divertimenti in cui viene ricostruita la Terra Santa, con tanto di passione, crocifissione e resurrezione di Cristo in musical!!! E folle di turisti, psicologicamente soggiogati dall’atmosfera ricreata da abili attori e ballerini, in una unione di comuni sensi, ridono, piangono e soffrono col Cristo Superstar!

Bill Maher non è mai aggresivo, nè oltraggioso, e lo si evince quando, dopo una conversazione con dei fedeli, li saluta dicendo grazie per essere stati simili a Cristo e non ai cristiani, rivelando una garbata consapevolezza della spiritualità.

Bisogna distinguere l’Uomo da Dio per accedere alla spiritualità pura, a quella congiunzione con la divinità che non nega nè la ragione nè il pensiero critico, ma che si oppone con ardore ad ogni forma di fanatismo e perversione religiosa.
Nella battaglia tra religione e spiritualità, scelgo quest’ultima, scelgo l’amore divino che mi svincola dai condizionamenti e mi apre il cammino verso la libertà.