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La Casa della Speranza: l’avventura continua

raggi di speranzaLa mattina di tre anni fa accesi il telefonino. Mi avevano cercato. Da Catania. Da Acireale. Sapevo già cosa volevano dirmi. Rimasi ferma per un lunghissimo attimo.
Mi ritorna alla mente l’immagine di me stessa  immobile col cellulare in mano, nella vecchia casa.
Mi voltai e dissi: devo tornare in Sicilia.

C’ero stata qualche settimana prima e lei lo sapeva che quella volta sarebbe stata l’ultima occasione per abbracciarci come non avevamo mai fatto in tanti anni di amicizia. E mi strinse con la sua debole forza.
Io le dissi senza crederci: ci vedremo ancora. E lei si limitò a sorridermi.
Ora, quando penso a Viviana, mi vengono in mente solo i nostri viaggi insieme, l’Erasmus e le lunghe conversazioni telefoniche.
Dei mesi della malattia non ricordo immagini, ma solo parole, sensazioni e il fremito del suo respiro. E poi tante risate. Le risate soffocavano in qualche modo la sofferenza di chi sarebbe rimasto e forse, chissà, attenuava i dolori che ogni giorno puntualmente ricordavano a Viviana che ciò che stava finendo stava in realtà generando altro.
Oggi parte di “quell’altro” è la realtà concreta della Casa della Speranza, un’opera a favore degli ultimi che Viviana ha voluto con tutta se stessa e che i suoi genitori, gli amici e i volontari dell’Associazione Viviana Lisi stanno portando avanti con devozione e grande entusiasmo.

La Casa della Speranza “Viviana Lisi” si trova in Corso Europa Riposto (Ct)

Per informazioni, donazioni o semplicemente per acquistare il libro Raggi di Speranza potete scrivere a:

associazionevivianalisi@yahoo.it

casasperanza.vivianalisi@yahoo.it

info: 339 8424118

A single man

a single manSono andata a vedere questo film perché non avevo niente di meglio da fare quel pomeriggio in cui, passeggiando per il centro di Roma, dissi: “Dai, entriamo?”
Neanche nel lontano tempo della prorompente adolescenza sceglievo un film per la presenza di un attore, e invece, ora, mano nella mano del mio adorabile marito, ho optato per A single man esclusivamente per la passione smodata e setosamente carnale che provo nei confronti di quel bell’uomo di Colin Firth. (Già dai tempi di Bridget Jones, ma non ditelo in giro, ho una reputazione da cautelare.)

Ed è proprio per tale ragione che mi rallegro della Coppa Volpi che gli è stata attribuita alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, purtuttavia non riesco a farmene una ragione.
Come hai potuto, Colin, lasciare che ti dirigessero in tal maniera,  alterando totalmente la credibilità di un bellissimo personaggio, quale è il professor George Falconer?
Non  sottostimare il tuo pubblico: esso non ha bisogno di essere imboccato con messinscene didascaliche e ridondanti. Il tuo pubblico sa che il pane tirato fuori dal freezer è surgelato, non hai anche bisogno di sbatterlo violentemente contro il tavolo per farci udire la sua consistenza!!!
Una recitazione che simula la presenza di un bastone impiantato su per il condotto anale non rende il garbo, il manierismo (seppur ossessivo), la meticolosità e la maniacalità di un personaggio così elegante e raffinato.
La ricerca spasmodica dell’estetica ha reso i personaggi, l’ambientazione e la storia freddi e banali, a tratti noiosi.
La bellezza che ritroviamo più volte nelle parole e nei pensieri di George (quando per esempio invita i suoi studenti a coglierla nel presente),  l’avremmo voluta vedere in immagini autentiche e sincere, cariche di quella potenza narrativa in grado di restituire la naturalezza della dimensione umana.
La bellezza in questa pellicola, invece, rimane imprigionata nella sua stessa forma, nella gabbia stilistico/manieristica in cui è stata ossessivamente ricacciata: la bellezza soffre di afasia e nessuno riesce a sentire il suo urlo soffocato.
E tale soffocamento è ben descritto nel re dei tòpoi: l’uomo che volteggia negli abissi, l’acqua che soffoca e che purifica, e, dulcis in fundo, il bacio della morte.

L’estetica, questa volta, ha ucciso la bellezza!

Universi artistici al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Calder_GlassFish_1955 (1)Il più bel regalo che ho ricevuto quest’anno per Natale è stata la MyPdE Card, l’abbonamento individuale che permette di accedere gratuitamente per un anno a tutte le iniziative culturali del Palazzo delle Esposizioni e delle Scuderie del Quirinale.

E così capita di scoprire artisti e retrospettive per le quali difficilmente avresti investito tempo e denaro, un po’ per pigrizia, un po’ per ignoranza…

Io, per esempio, ignoravo chi fosse Alexander Calder.

Il Palazzo delle Esposizioni ospita fino al 14 febbraio la mostra di Alexander Calder (1898-1976), artista americano che ha attraversato l’arte cinetica proponendo forme d’arte dinamica nelle sue sculture. Sono nati così i mobiles sculture mobili sospese nell’aria o anche semplicemente piantate per terra che restituiscono l’idea dello spazio, del movimento, del vento che le solletica lasciandole oscillare infinitamente.

Non hanno significato queste forme, sono e basta, esistono perché sono belle, non hanno alcun messaggio intrinseco da comunicare se non il puro piacere di fluttuare nell’aria, dell’essere forme interattive e in equilibrio nell’universo circostante.

E svela l’universo e le sue mutevoli forme la rassegna Astri e particelle. Le parole dell’Universo sempre negli spazi del Palazzo delle Esposizioni. La mostra racconta i grandi esperimenti e i grandi uomini e le grandi donne che compiono studi sugli straordinari fenomeni che riguardano i misteri del cosmo e nell’umanità.

La linea che divide la scienza e la spiritualità è sempre più sottile!

Il sito  www.astrieparticelle.it offre la possibilità di immergersi nella mostra attraverso un suggestivo tour guidato che vi consiglio vivamente.

Senza salvagente!

salvagente2009, ovvero l’anno dell’attesa.

2010: cambiando le ultime due cifre potrà mai accadere una chissà quale congiuntura astrologica/esistenziale/ormonale tale da provocare la tanto fatidica svolta?

Qui si galleggia da troppo tempo ormai e si nuota a fatica, ci si stanca e ogni tanto si fa il morto per farsi trasportare dalle onde.

Quando il mare è in tempesta si rischia di annegare e quando  in mare c’è calma piatta si rischia di annegare lo stesso.

Nel 2010 lascerò il salvagente in spiaggia! Ma prima allenerò ben bene i dorsali!

A serious man

a seroius manIncertezza.
Suggerisce già il prologo ed è il sapore del finale di questo film troppo personale e troppo ostico per chi come me, non ha una sensibilità ebraica da poter cogliere certe raffinatezze stilistiche e culturali di cui è disseminato il film.

E mi dispiace non poco aver mancato l’occasione di poter godere di questo piccolo quadretto stilistico in cui un uomo comune, che vive esperienze di vita comune, si sente messo alla prova da Dio e cerca conforto proprio nelle istituzioni che quello stesso Dio rappresentano.

In altre parole è la semplice messa in scena del principio di indeterminazione e della ricerca di un equilibrio attraverso le strutture sociali della comunità ebraica dell’America del Mid West degli anni ’60.
Un professore di fisica viene lasciato dalla moglie per un Serious Man, che non diventa un suo rivale, ma un modello di rettitudine a cui potersi ispirare.
Ha il peso di un fratello disoccupato e depresso, dedito al gioco d’azzardo, ha due figli totalmente disinteressati a lui e una vicina seduttrice. In più, un suo allievo lo ricatta e vive l’ansia per la speranza di un’ imminente promozione.

La narrazione di questo ritratto però, dipinto con dei colori troppo angoscianti e opprimenti, arriva zoppicando e parla una lingua a me incomprensibile, troppo lenta e faticosa, suscitandomi lunghi momenti di noia e tristezza.

La religione non conforta, la famiglia nemmeno, la pellicola segue il suo cammino centripeto ruotando vorticosamente intorno a se stessa senza arrivare a nulla, perché non vuole arrivare a nulla. Allora mi chiedo, perché raccontarlo?

Ho provato a bussare alla porta, i fratelli Coen mi hanno aperto, ma non sono riuscita a varcare la soglia, come se una forza mi avesse impedito di entrare.
Pertanto, sospendo il giudizio, forse troverò un’illuminazione tra questi versi:

When the truth is found to be lies
You know the joy within you dies
Don’t you want somebody to love ?
Don’t you need somebody to love ?
Wouldn’t you love somebody to love ?
You better find someone to love…

(Somebody to love – Jefferson Airplane 1967)

Looking for the Craic

wonderleprechaunCRAIC è una parola di origine gaelica che non ha un corrispettivo in inglese perchè è un modo di essere tipicamente irlandese. Può essere tradotto con having a good time or a laugh
A good craic is always social
, perchè il craic si sprigiona solo in compagnia, tra chiacchere, scherzi e pinte di birra.
Ma c’è solo un modo per scoprire l’essenza del Craic: come over to Ireland and have some craic yourself!

Sono passati 10 anni dalla prima volta che incontrai Dublino.
Allora era estate e il verde caldo brillava tra le strade della città e tra i vialetti di St Stephen’s Green. In questi giorni, invece, ci ha accompagnato un freddo mansueto e il sole ci ha scortato impedendo alla pioggia di importunare i 4 giorni di vacanza con le mie amichette del cuore.

O’ Connel Street, Dawson Street, Grafton Street, passerelle festose dello shopping natalizio, scintillavano tra luminarie, colori, abbondanze e sorrisi della gente. Perchè, sarà forse un luogo comune sugli irlandesi o forse è proprio quel craic che ribolle nel sangue, ma io di musi lunghi qui ne ho visti ben pochi!
Con questo non voglio certo affermare che tutti gli Irlandesi siano persone allegre e felici e che vivano la propria vita in uno stato di beata inconsapevolezza, ma camminando per la città si percepisce una generale sensazione di pacato buonumore diurno.
Già, perchè poi la notte avviene la trasformazione che spesse volte prende anche forme eccessive di ebbrezza distruttiva, altre volte invece rimane un’estrema convivialità e socievolezza che sbevazza allegramente danzando, dispensando baci e abbracci in un tripudio festoso collettivo.

La gente di Dublino si riversa nei pub già dal tardo pomeriggio, gli uomini ancora in giacca e cravatta, i ragazzi in maniche corte sfidano il freddo, le giovane fanciulle abbandonano le divise da collegiali per arrampicarsi su tacchi vertiginosi esibendo lunghe e spesso possenti cosce, le più ardite anche prive di collant!!!
Siamo a Temple Bar tra Dame Street e il fiume Liffey. Da un vicolo si scorge lo spettacolo di luci e ombre delle tre lampade che illuminano l’ Ha’ Penny Bridge, mentre dai pub fuoriescono le intramontabili note dei classici da Knockin’ on Heaven’s Door a No Woman No Cry passando per Wild Rover…

10 anni fa parlavamo con chiunque e tutti erano interessati a sentire i nostri racconti e a bere con noi. Si parlava dell’Italia, del giro che avremmo fatto per l’Irlanda, di cosa studiavamo e di ciò che ci piaceva fare e ascoltavamo consigli e suggerimenti, si beveva insieme, ci offrivano molte birre…del resto, eravamo due belle fanciulle…
Oggi non è stato così.
Abbiamo incontrato tanta gente, parlato con pochi, se non per chiedere informazioni alle quali ci hanno risposto sempre con gentilezza e disponibilità, ma poche chiacchiere e nessuna convivialità come i vecchi tempi.
Cinguettavo qua e là da un ramo all’altro, nel tentativo si sfoggiare (o meglio di rispolverare) il mio inglese, memore dei tempi che furono, anche per la mia spasmodica esigenza di parlare con la gente. Il risultato è stato molto modesto rispetto alle aspettative.
Qualcosa è cambiato. A questo punto potrebbero aprirsi molte riflessioni di natura sociale sull’argomento, ma preferisco pensare che forse è l’inverno che infreddolisce le relazioni umane.

Perciò mi sono consolata con la cultura visitando la bellissima e inquietante mostra  WHAT IF presso la Science Gallery.
Ispirati dai grandi interrogativi sull’esistenza umana, designer e artisti di tutto il mondo hanno dato vita a provocatorie forme d’arte, spesso ai confini del gusto e dell’etica, rimettendo in discussione, nel bene e nel male, valori quali la genuinità, la spontaneità e la naturalezza, delle volte in nome del progresso, altre volte per puro compiacimento estetico/intellettuale. “Cosa succederebbe se i nostri pensieri fossero di pubblico domino o se potessimo usare l’olfatto per scegliere il partner perfetto o se si potessero coltivare i farmaci sul nostro stesso corpo o ancora se ci fossero delle macchine in grado di leggere le nostre emozioni e se la carne fosse prodotta in laboratorio?”  WHAT IF  è una visione del mondo, è  il piacere di immaginare le possibili e infinite direzioni in cui un’idea, un pensiero, una storia può andare.

E il nostro viaggio è andato verso Clontarf, quartiere a nord di Dublino che ha visto nascere Bram Stocker. La passeggiata lungo il Bull Wall ci ha regalato uno scenario meditativo e amabilmente malinconico soprattutto perché incorniciato da un cielo paffuto di nuvole bianche che scoprivano, di tanto in tanto, corposi e accecanti raggi di sole che scaldavano il cammino.  Sull’immensa distesa della spiaggia di Bull Island i bambini manovravano grossi aquiloni che volteggiavano in aria insieme ai gabbiani. Sullo sfondo si intravedeva l’intensa attività del porto di Dublino.

“Oh my Cod!” recitava un cartellone pubblicitario su una fermata del bus, è ora di pranzo! Fish and chips…tanto per cambiare!

La cucina non è certo uno dei punti forti della cultura irlandese, anche se ho apprezzato molto l’Irish Stew, soprattutto quello assaggiato ad Avoca da Fitzgerald’s locale ben noto ai telespettatori irlandesi perchè location della serie tv Ballykissangel, storia di un giovane prete cattolico di Manchester che viene trasferito in una piccola comunità irlandese.
Avoca si trova nella contea di Wicklow e ci si arriva comodamente tramite un day tour in bus che ci ha condotto verso
la valle dei due laghi, Glendalough, attraverso paesaggi boschivi dai profili scoscesi, sentieri che si inerpicano lungo anfratti mistici e scenari dai forti contrasti cromatici che solo la luce del nord riesce a restituire.
Questo paesaggio ascetico ispirò l’anima anelante di St. Kevin a porre la prima pietra del suo centro monastico e avrebbe ispirato anche noi verso profonde riflessioni sui massimi sistemi se l’eccessivo e scoppiettante craic dell’autista non ci avesse stonato per tutto il viaggio con
le canzoncine natalizie e il suo umorismo spicciolo da animatore turistico.

Voglio ritornarci ancora in Irlanda e forse mai capirò da dove nasce questa misteriosa entità che scorre nel sangue degli Irlandesi e che continua a renderli un popolo allegro, esuberante, brillante e vitale. Riscoprirlo ha reso questa vacanza bellissima e ancor di più perchè ero con persone speciali insieme alle quali finally I had some craic myself!

P.S. Abbiamo dormito nel Charles Stewart B&B. Ve lo consiglio, economico, pulito e centralissimo.

E per una pausa caffè che assomigli a un espresso italiano, fate una sosta da Butlers dove vi aspetta un tripudio di cioccolata di ogni sorta.

Isola d’Elba: manuale di sopravvivenza

isola d'elbaL’Isola d’Elba è molto bella, ma in Italia abbiamo mari più limpidi, panorami più incantevoli e suggestivi che gravano meno sul portafogli (alcune zone della Puglia, la Sicilia e la Calabria per esempio) dove si mangia meglio e c’è più vita notturna.

Ma all’isola d’Elba se sei innamorato, hai voglia di belle spiagge libere, pulite e un minimo attrezzate, mare trasparente, poca confusione e voglia di stare core a core col tuo amore, è il posto che fa per te.
Ma attenzione, l’isola impervia non ti aspetta col suo bel tappetino rosso e non si lascia neanche conquistare facilmente.

I primi due giorni infatti, un po’ confusi e maldestri, li trascorriamo a tentare di addomesticarla e sembra che essa non voglia farsi conoscere.
Il nostro tentativo di percorrerne il perimetro in auto, alla scoperta delle spiagge e calette più nascoste viene scortesemente deviato dalla stessa strada che ci porta ad inerpicarci tra le curve infinite del Monte Capanne…avessimo visto almeno un muflone…
L’altra spiacevole sorpresa sono i prezzi non esattamente contenuti, del tipo pesche 3 euro e 50 al chilo o cocomero 1 euro e 20 al chilo, che ti passerebbe pure la fame, ma il condizionale è d’obbligo, perchè il cocomero lo compro lo stesso!

Ma non ci lasciamo abbattere nè dalle curve, nè dal cocomero che, vista la strada, mi si ripropone minaccioso a ogni sterzata e, curiosi e ostinati, portiamo avanti la nostra esplorazione nella natura aspra e selvaggia.

Ed eccoci felici e soddisfatti passeggiare sulla spiaggia granulosa di Cavoli (nel comune di Marina di Campo a sud) pienia di ggiovani (categoria sociale particolarmente latitante nell’isola, soprattutto quella compresa nella fascia 20-40 anni). Poco più avanti lo scenario cambia e la spiaggia di Fetovaia, ricca di famigliole felici, si ritrova avvolta dalla macchia mediterranea che regala ampi spazi d’ombra alle nonnine che osservano i nipoti fare i castelli di sabbia sulla battigia. Mano nella mano, io e il mio maritino ci spingiamo più in là fino a scovare un nuovo scenario marino, quello di Pomonte nel comune di Marciana a ovest dell’isola.
La spiaggia di Pomonte è vestita da grossa ghiaia liscia e levigata. Al contatto con le onde del mare le pietruzze cicciotte rotolano e si inseguono tra di loro come giocassero a rincorrersi. Di fronte alla riva, su un fondale di appena dodici metri vicino allo scoglio dell’Ogliera, giace una nave da carico affondata nel 1972.
Altre splendide calette si trovano nella zona nord nel comune di Marciana Marina, tra S. Andrea e Procchio, ma è una zona su cui non ci soffermiamo molto.

Infatti dopo aver visitato gran parte delle spiaggette di cui sopra,  finalmente troviamo la nostra oasi nel lido di Lacona, (a sud dell’isola nel comune di Capoliveri) spiaggia libera, pulita, confortevole, discretamente frequenata (prevalentemente italiani del nord e francesi) chioscodotata per pausa caffè shakerato per Marco e ghiacciolo al limone per me (con l’età si scoprono i sapori stigmatizzati in gioventù).

Gli ultimi 4 giorni di vacanza (per un totale di 6!) si sono così susseguiti: ore 8.30-12.30 spiaggia di Lacona, rientro nel nostro miniappartamento attufato per pranzo prevalentemente a base di pasta col tonno e/o sughi pronti, superpennichella, televisione spazzatura, lettura, cruciverba e quant’altro, ore 16.30-19.30 ancora mare, poi rientro in mini appartamento attufato, toletta e via verso una nuova avventura mangereccia in uno dei paesini dell’isola.

Il più bello in assoluto è Capoliveri, ex borgo di minatori, arroccato in collina, dalle cui terrazze si possono ammirare panorami mozzafiato al tramonto.

Che immagine romantica, io e il maritino abbracciati che guardiamo il mare caldo pronto ad accogliere un sole ormai stanco, manco fossimo in una copertina di un 33 giri di Claudio Baglioni!
A Capoliveri è bello passeggiare per le viuzze in salita, tra gradini altissimi e archi bui che aprono a prospettive impreviste, e poi fermarsi in piazzetta a bere una birra fresca, guardare la gente, fare due chiacchiere e mettere a confronto le braccia per vedere chi è più abbronzato.

Ma a Capoliveri è commovente andare al ristorante il Chiasso (gentilmente suggerito da Marco Massarotto) e ordinare il cacciucco speciale di Luciano che inebria lo spirito e i sensi e illumina il mio volto di gioia.

E poi c’è Portoferraio, troppo fashion, troppo patinata e brulicante di forestieri briatoreggianti col colletto della polo all’insù e poi barche, yacht, chill out e quell’olezzo stantio di buddha bar oramai sconfitto dal tempo.
Ma ci piace vedere anche questa umanità mentre friendfeediamo sul lungomare sorseggiando il nostro aperitivo che miracolosamente ci costa solo 5 euro.

La collettività di Porto Azzurro è più variegata e ci priva del piacere della derisione come a Portoferraio, ma almeno è colorata, rumorosa, allegra e fa compagnia, anche se di ventenni e trentenni neanche l’ombra!

Forse ce n’è qualcuno di più a Marina di Campo dove imperversano i pub e qualche localino lounge minimal, sia di arredamento che di avventori.

L’isola d’Elba è semplicemente così, in gran parte selvatica, un po’ arcigna e arroccata sulle sue sicurezze, un po’ renitente, ma generosa, coi suoi tempi e i suoi ritmi.

L’isola ti accoglie, ma non ti coccola, ti da’ ciò di cui hai bisogno, ma senza smancerie.

L’isola è ferma lì, non aspetta te, e quando arrivi è contenta, ma il suo sorrriso sarà sempre a mezza bocca.

Chi ha paura della Rete?

1012_76_1223974753_megafonoSono arrabbiata, schifata e indignata per l’ignoranza dilagante che viene propagandata dalla televisione generalista.

Su questo ormai datato video infatti, i cosiddetti esperti nascondono la propria incompetenza  e ignoranza dietro paroloni e giustificazioni pseudosociali e pseudoantropologiche.
Siete tutti una massa di ignoranti, incompetenti e vigliacchi, incapaci di stare al passo coi tempi, con la tecnolgia, e con il mondo che cambia così in fretta.
Avete paura, eh? Allora abbiate la compiacenza di stare zitti, in silenzio e in disparte. Parlo con voi, voi che dal piedistallo dei vostri bei reality, su cui tanto amate sparlare nelle trasmissioni istituzionalizzate (vedi Porta a Porta), ve ne fate promotori. E ci mangiate sopra spiattellando le vostre opinioni, lì, spaparanzati sulle postazioni di prestigio nella massa del pubblico generalista celebroleso che voi stessi contibuite a nutrire di ignoranza.
Chi ha un blog non cerca visibilità fine a se stessa, ma cerca uno spazio per parlare, condividere e proporre idee. Chi sceglie di aprire un blog lo fa perchè sa che la rete è l’unico spazio democratico rimasto per poterci esprimere. Chi apre un bolg non vuole essere visto, ma vuole essere ascoltato.
Sulla rete si fa comunicazione, sulla rete circolano le idee, sulla rete nasce, cresce, e si sviluppa il pensiero libero. Sulla rete nascono rapporti professionali e umani.
E’ l’individuo che fa la differenza non il mezzo! E l’individuo, quello che ha il diritto di accedere alla rete, è anche colui che ascolta quello che dicono i sedicenti esperti che snobbano la responsabilità di valutare attentamente ciò di cui parlano alla massa. Non è una questione di punti di vista differenti, qui si parla di un grosso inganno di cui è vittima la gente che guarda la televisione e che ha il diritto di guardarla per quello che dovrebbe essere il suo valore educativo e di intrattenimento.
Pertanto, stai attento caro Meluzzi, quando dici che apre un blog chi non riesce ad accedere ai reality, perchè costoro non hanno la minima idea della potenza comunicativa che un blog può avere. Ed è questo ciò che vi spaventa di più, la paura di perdere il controllo sull’informazione, la paura di perdere le vostre poltrone calde e le vostre certezze sterili, anacronistiche e infeconde.
La rete è un mezzo, uno strumento influente che ha in sé una sorta di autoregolamentazione che si nutre dei principi di base del rispetto e della democraticità. E per chi ancora non ha accesso per paura, per mancanza di interesse o per qualsivoglia ragione, è bene che le istituzioni stesse promuovano questo privilegio attraverso una politica di educazione che parte dalla scuole e dalla formazione degli insegnanti.
La rete, non è lo spazio in cui si celebra l’ego malato delle persone che sfocia in delitti violenze e forme di perdizione morale. Chi è dedito a ciò probabilmente amplifica le proprie perversioni su internet, ma non è internet la causa.

Internet, come qualunque altra forma di comunicazione, è un beneficio, una potenzialità che va capita, valorizzata e “distrubuita” a tutti. Internet è un diritto di tutti e lo reclamo a gran voce!